mercoledì 27 novembre 2013

DOVE ABBIAMO SBAGLIATO? QUI.

LA LETTERA APERTA DI GIANNA PACIELLO
(VICE PRESIDENTE DI AIDA PARTNERS OGILVY PR)


Dove abbiamo sbagliato? Perché qualcosa abbiamo sbagliato di sicuro, se dopo anni di battaglie per cancellare l’immagine di una categoria poco qualificata, poco professionale, improvvisata e salottiera, salvo qualche rara eccezione, non siamo riusciti a conquistarci un posto su quel podio, dove dovremmo essere di diritto. Perché ancora oggi, dopo 30 anni, le aziende comunicano le campagne pubblicitarie o quelle web e mostrano un rispetto reverenziale verso tutti gli operatori della comunicazione. Tutti, ma proprio tutti, tranne noi Rp . Quante volte, voi colleghi, avete sentito un’azienda intervistata ringraziare la propria agenzia? Quante volte avete dovuto insistere per fare citare il vostro nome da un cliente, nonostante il progetto, il pensiero che ci stava dietro, il lavoro infinito per idearlo e confezionarlo, fosse tutto vostro? Non sto dando la colpa alle aziende e non voglio darlo alla stampa. Abbiamo fatto tutto da soli. Cioè non abbiamo fatto niente! Ognuno di noi ha cercato di lavorare con professionalità, qualità, dedizione. Così tanta, a volte per farci inconsciamente perdonare il nostro peccato originale, da diventare agli occhi dei clienti dei ‘fornitori’, non dei consulenti, una categoria di serie B, diciamocelo pure. Difficile ora cambiare le cose e le prospettive. Prospettive tutte italiane, perché all’estero la categoria ha un ruolo di primo piano, riconosciuto da sempre, apprezzato e inneggiato. Ma si sa, noi italiani abbiamo il vizio di banalizzare il buono ed esaltare il peggio. Non siamo riusciti neanche a creare un’associazione che ci proteggesse o, meglio ancora, che comunicasse (eppure dovrebbe essere il nostro mestiere) quello che sappiamo fare, giorno dopo giorno, anticipando da sempre i ‘segnali deboli’ che poi diventano i trend del mercato. Niente. Non abbiamo fatto niente neanche lì. Ci siamo dati delle regole che per primi non rispettiamo e ci siamo parlati addosso, dimenticandoci che era il mercato a dover capire a cosa serve il nostro lavoro. E così ora i nostri clienti pensano che fare relazioni pubbliche sia intrattenere solo i rapporti con la stampa. E a volte lo pensano anche le nuove leve che prendiamo in agenzia. Colpa delle scuole che sfornano migliaia di futuri comunicatori all’anno? No, è ancora e sempre colpa nostra, perché in quelle scuole insegniamo anche noi. Ho 51 anni, troppi per fare la paladina, ma pochi per smettere di sognare. E il sogno è che le nuove generazioni di comunicatori facciano qualcosa, tutti insieme, per dare valore al nostro lavoro. Io non mi tiro indietro e come me tanti altri, e non solo nella nostra agenzia. Si accettano proposte”.

LA (MIA) RISPOSTA

La condivido, la lettera "coming out" di Gianna Paciello. Perché dopo un weekend di pensieri e ripensieri, tra il serio e il faceto, sull’opportunità di lasciare perdere questo mondo un po’ alla deriva, la domanda centrale continua a rimbombare. E anche se poi noi comunicatori decideremo di darci definitivamente alla vita monastica, al quesito della Gianna, “dove abbiamo sbagliato”, dobbiamo rispondere. Non certo per autocommiserazione ma perché per cambiare è importante partire da un consapevole e pieno riconoscimento del fondo in cui siamo caduti. Dal momento in cui “abbiamo sbagliato”, dato che quel momento tutti sappiamo qual è E’ il momento in cui abbiamo cominciato a mentire. Prima a noi stessi e poi a 360°. Poi certo, l’affabulazione dei pubblicitari e le conseguenti luci della ribalta a noi non sono mai state concesse. Ma non erano neanche previste dal nostro mestiere. Tutto giocato sul “crederci” più che sul persuadere. Sulla verità prima della suggestione. E noi a un certo punto non ci abbiamo più creduto. Pur continuando a fingere il contrario e per di più privi anche di quell’esperienza scenica e la credibilità, perlomeno emotiva, garantita ai nostri “cugini ricchi della pubblicità”. Andiamo nel concreto. Che cosa, a un certo punto, abbiamo raccontato ai nostri clienti? Promesse al limite dell’improbabile. Improbabili “metodologie proprietarie” arrivate fresche fresche dalla sede di New York. Progetti precotti che valgono dall’industria aerospaziale al tonno in scatola (alcuni di essi pure transitati di agenzia in agenzia seguendo le migrazioni dei singoli professionisti). Team operativi formati al 90% da giovani con tanta voglia di crescere e mandati in guerra con il colapasta in testa. Ma non solo. Parliamo pure dell’ufficio stampa, che da attività di relazione e accreditamento con i giornalisti (altra categoria oggi alquanto disastrata) è diventata promessa di pubblicazione su “commissione”. Su questa o quella testata a firma di questo o quel giornalista “che conosciamo benissimo”. Il risultato? Oggi i clienti mandano mail laconiche in cui chiedono direttamente di uscire su Repubblica, Corriere ed Espresso indicando la posizione in pagina. Il fatto che, eventualmente la notizia esista o meno passa in secondo piano perché “tanto è questione di contatti”. Ma non sono le aziende che non capiscono. Siamo noi che glielo abbiamo fatto credere, perché di fatto nell’ufficio stampa, quello vero, fatto seriamente e che è relazione costruttiva tra diverse professionalità, non ci abbiamo più creduto. Eppure questo mestiere per noi che lo facciamo da tempo una sua dignità ce l’aveva davvero. Era davvero l’arte del sogno “con la data di scadenza” (come diceva Claudio Maffei) che era quella in cui il sogno diventava vero. Non certo l’arte del “prendi i soldi e scappa”. Forse è proprio da qui che dobbiamo ripartire. Dal ricominciare a crederci. Per responsabilità verso noi stessi. Verso chi ci ha consegnato nelle mani una professione ben diversa da ciò che se ne è fatto dopo. Per riprogettare insieme alle giovani leve il nostro (e il loro futuro). Anche perché, altrimenti, cosa pretendiamo di insegnare ai comunicatori in erba? L’arte dello scasso? Un sogno farlocco in cui noi, per primi, non crediamo più da tempo? Mesi fa ho sentito un’intervista radiofonica in cui una nota giovane cantante parlava della sua laurea in “stronzologia”. Voleva dire scienze della comunicazione. E possiamo anche discutere sull’inopportunità o volgarità di tale dichiarazione e tutto il resto. Ma prima di tutto dobbiamo prendere atto, seppure dolorosamente, che qualcuno, alla radio, i comunicatori li chiama “stronzologi”. Poi va da se che non lo siamo, che gli episodi di cui accennavo sopra riguardano solo alcuni operatori del settore e che purtroppo gettano nel fango il faticoso e sudato lavoro di tutt’altra razza di professionisti. Seri, responsabili e onesti. Ma si sa, viviamo in un mondo in cui 5 albanesi rubano e automaticamente l’Albania diventa un paese di ladri. E i pregiudizi, una volta consolidati, per quanto odiosi sono difficili da confutare. Soprattutto se nessuno si prende la briga di farlo. E a questo punto servono a poco le associazioni a cui deleghiamo la nostra difesa e reputazione se sono fatte da persone che non sono in grado di difendere neppure la propria. Detto questo, o ci si dà una mossa anche a costo di ricominciare da zero, o si cambia davvero vita e a cambiare la professione delle Relazioni Pubbliche ci penseranno, se ne avranno voglia, le generazioni successive. Se non ne avranno voglia i comunicatori saranno giocoforza condannati all’estinzione. Un po’come i maniscalchi e gli impagliatori. Ma, almeno per il momento, è un rischio non così incombente. Perché qualcosa si muove. Gente che si reinventa. Gente come me che nel weekend sogna di servire mojitos per il resto della vita, ma poi basta un nuovo progetto che si parte subito in quarta anche se l’armatura ha qualche ammaccatura e non è proprio lucidissima. O come la Gianna, che a 51 anni non ha più voglia di fare la paladina ma mentre lo dice salta in sella. E, mi spiace contraddirti Gianna, ma in sella non ci si limita a sognare. Si ricomincia a correre.

martedì 10 settembre 2013

LIBERTA' E BARBARIE

Ho  letto l’ennesimo testo sulla comunicazione social e visto che ancora una volta di acqua calda si parlava tanto varrebbe recuperare il manuale del boiler: perlomeno non si va oltre le 30 pagine di cui solo due veramente utili. Ancora una volta, secondo questi nuovi guru, la comunicazione delle aziende su Facebook e compagni deve essere personale, autentica e pregna di contenuti “di valore”.  Dovrebbe usare un linguaggio confidenziale, dialettico e aperto. Esattamente come fanno le persone sui loro profili e coerentemente con quella che è la natura del mezzo. Ovvero mettere in contatto le persone, ampliare le loro reti sociali e, più in generale, “nutrire le relazioni”.  Ma, andando a scorrere le varie pagine del libro delle facce o il rullo dei cinguettii, possiamo dire che oggi è ancora così? Se parto da me e da buona parte dei miei “amici” direi proprio di si. Per me Facebook è ancora un mezzo in cui mi racconto, mi metto a confronto con le persone che conosco e, anzi, mi permette di dare una quotidianità a molte relazioni che, per questioni di tempo o di distanza fisica non potrei mai coltivare nella cosiddetta vita reale. Ma io da sempre faccio poca tendenza. Nel corso dell’ultimo anno ho infatti notato un trend perlomeno stravagante. Non solo riguardo alle tematiche che ogni giorno riempiono le cronache dei media (cyber-bullismo, linguaggio violento ecc. ecc.). Non che non siano preoccupanti, ma sicuramente non mi sorprendono.  Ci sono sempre state. Nelle scuole, nei posti di lavoro, per le strade. E dal mio punto di vista il fatto che abbiano cambiato sede ne aumenta solo marginalmente la gravità. Non mi stupisce neppure l’arroganza, il turpiloquio o l’estremismo di alcune posizioni. Dato che credo che tutto ciò faccia parte della cosiddetta libertà d’espressione e che l’importante semmai è che ognuno si prenda la responsabilità di ciò che dice. La televisione in fondo sa essere anche molto peggio. Quello che invece mi stupisce è la folle e stralunata compulsività con cui molte persone (a partire da quelle celebri) gestiscono il dialogo. Mi spiego meglio. Anzi, per spiegarmi prendo a prestito un post di Michele Dalai pubblicato qualche giorno fa. Dice “Se ti sei fotografato i piedi in mare dieci minuti prima il tuo tweet sulle stragi in Egitto perde un po' di intensità, non trovi?”. Una sintesi perfetta. Che, chiariamoci, se ti chiami Belen Rodriguez ci può pure stare. Ma se sei uno normale perché lo fai? Forse per ansia di protagonismo? Per narcisismo? Perché lo fa Selvaggia Lucarelli e c’ha costruito una carriera? Per dimostrare che bellezza e tragedia possono andare mano nella mano? Se le motivazioni sono queste non mi preoccupo. Perché è un teatrino, non è reale e ognuno si diverta come vuole e come può. Purtroppo il buon gusto, lo abbiamo imparato da tempo, non è da tutti. Ma se invece ciò riflette autenticamente la persona, la sua emotività e il suo modo di portare se stesso all’esterno, direi che la situazione si fa preoccupante. Ed è proprio questione di tempi, di quei dieci minuti che passano, metabolizzano e sciolgono velocemente lo sbigottimento, il dolore e lo sconcerto nell’ansia del mostrare i piedi a bagno nel mare. E in quei dieci minuti così bipolari il nuovo nega il precedente. Come il bulimico che si abbuffa per vomitare subito dopo. Come un funerale in discoteca. A questo punto vale la pena di dare una dimensione a questo fenomeno. Che vorrei poter dire limitata. Nella rete dei miei contatti (poco più di 600), infatti,  le persone di questo tipo sono davvero pochissime. Ma oggi, per caso, mi è capitato di andare sulla pagina di Vice. Una rivista adolescenzial-alternativa che si definisce “la guida definitiva all’informazione illuminante”. Sulla sua pagina FB nel giro di tre ore sono apparsi post riguardanti: l’assunzione come giornalista della figlia del fondatore della Chiesa di Satana, le scarpe Vans, il suicidio (con tanto di foto del cadavere) di un artista concettuale, il mercato di armi in cambio di rifugiati tra Israele e Uganda e una galleria infinita di bizzarrie sessuali “al limite”. Roba per Nerd un po’ disturbati? Forse. Ma sono 1.444.000. Onestamente, giusto per tornare al tema dell’inizio, se anche le aziende, sui social media, usano quindi un linguaggio un po’ troppo freddo, impersonale e artificiale va bene così. Intanto comincino a prendere confidenza con il concetto di dialogo, poi si vedrà. Perché un conto è metterci la faccia. Un conto è perderla. Ed è già successo.

martedì 16 luglio 2013

MATRICOLE

La crisi sicuramente ha effetti molto strani. Da una parte c’è la logica, che io appoggio pienamente, della spinta al cambiamento, della ricerca di nuove opportunità con tutti i rischi che comporta. E che col “poco da perdere” forse tanto rischiosi non devono poi essere. Dall’altra c’è la paura, la depressione, lo stare chiusi nella gabbia perché ritenuta ultimo porto sicuro. Che è il modo più sicuro, a meno di tempestivi interventi da parte dello Spirito Santo, per soccombere. Inutile dire che la seconda strada è sicuramente la più battuta. Certo, le circostanze esterne non aiutano, ma questa rischia di essere una scusa, fin troppo pericolosa, per chiudere gli occhi rispetto a quello che c’è già. Il mondo infatti, quasi incurante delle vicissitudini dello spread, continua nella sua evoluzione. Le aziende no. Ovviamente quando parlo di rivoluzione parlo di “social environment”, del sistema dei social network che ha completamente rinnovato l’identità sociale di persone e organizzazioni e che, di conseguenza ha modificato, ampliato e “aumentato” le modalità di governo dei cosiddetti “sistemi di relazione”. E indipendentemente da tutte le profezie, dalle più catastrofiste che lo vedono come l’ennesima “bolla” destinata ad esplodere da un momento all’altro, alle più entusiaste che ne identificano un polo d’orbita pari come importanza più o meno al sole nei confronti della terra, ci sono alcune evidenze che non possono più essere ignorate. Innanzitutto le persone sono tornate ad essere “persone”. Tutte intere e non scisse tra “padri di famiglia” dalle 20 alle 22, gaudenti bon vivant successivamente e “professionisti duri e puri” dalle 9 alle 18 con relativi codici di abbigliamento, comportamento, segreti e bugie. E sarebbe un’opportunità incredibile anche per le aziende riuscire a sfruttare questa “interezza” dei dipendenti. Significherebbe per loro tornare ad essere quelle “organizzazioni sociali” tanto lette nei manuali di economia aziendale quanto poco vissute nella realtà. Non solo. Le “organizzazioni aziendali” potrebbero diventare “collaborative”, e in tal senso vi è già una vasta e sensata letteratura in merito. Potrebbero avvalersi della cosiddetta “intelligenza collettiva”, quella che nasce proprio dal mettere in dialogo persone e professionalità non soltanto limitatamente a competenze da curriculum e ruoli scolpiti su pietra e biglietti da visita. Anche su questo è già stato scritto molto. Potrebbero, anche senza arrivare a tanto, beneficiare di un clima armonico, motivato e pertanto incredibilmente più produttivo. Non per ripetermi, ma anche su questo tema le aziende hanno scritto molto. Nei loro manuali interni. Nelle famigerate “carte dei valori”  (fino a poco tempo fa non c’era sala riunioni che non ne annoverasse almeno tre). Nei welcome kit. E anche nei numerosissimi corsi di formazione, team building, ritiri zen, soggiorni in barca a vela, bungee jumping e beauty farm. Niente escluso e tutto a costi non proprio “low”. Quante parole, quanti viaggi, quanti guru. Ma soprattutto “quanto rumore per nulla”. Dato che tutto questo sforzo, viene legittimo chiedersi, dove è andato a finire? Come mai il collega, che durante il weekend mi sembrava tanto simpatico (e tanto sottovalutato), al lunedi mattina vederlo in camicia bianca con quell’aria acidula dietro la scrivania mi provoca gli stessi attacchi d’ulcera di prima? Come mai tutte le volte che sono a colloquio con il mio capo ho la sensazione di un “doppio fondo” rispetto alle sue parole? Ma soprattutto come mai in questo periodo di crisi le forse inevitabili decapitazioni avvengono con modalità spesso più cruente della rivoluzione francese? Dove sono finite le “carte valoriali”, lo “spirito di squadra” e tutto il resto? Sono caduti. Come cristalli sotto il sisma della crisi. Perché forse erano troppo fragili. O forse perché non coltivati in modo autentico. Si, questa ipotesi è decisamente la più convincente. Le aziende, per troppo tempo, hanno delegato a guru, beauty farm e ritiri zen, alcune responsabilità che invece erano squisitamente dei manager. Non che si voglia mettere in dubbio l’utilità degli strumenti formativi. Ma la loro funzione è limitata alla messa  in moto un processo. Che se non viene alimentato muore immediatamente. Succede così anche in famiglia: potremmo pensare  di conquistare l’amore di un figlio mandandolo semplicemente un mese in vacanza in California? Temo di no. E questo di fatto è ciò che è successo alle aziende. Hanno dichiarato di “amare i loro dipendenti” e per dimostrarlo hanno offerto loro un sogno. Poi l’hanno tradito.  Il risultato? Deprimente. Perché oggi l’aria che si respira nelle aziende è davvero pesante. Vige la legge del “mors tua, vita mea”, dell’oggi a te, domani a me. I dipendenti, quelli che oggi potrebbero essere “interi” e “integri” per se stessi e per le aziende, si sentono invece “risorse solo a tratti umane”. Lavorano come possono, perché uno stipendio a casa bisogna portarlo e con una spada di Damocle sulla testa. Rappresentata da quel colloquio con la porta che si chiude definitivamente dietro le spalle. Che, ogni volta che succede, dona un tiepido e temporaneo sospiro di sollievo per chi può ancora timbrare il cartellino ma che, allo stesso tempo, fa diventare quel cartellino una carta d’identità. Con il numero di matricola al posto del nome. Proprio nell’era in cui tutti siamo sul libro delle facce, con la nostra immagine, un nome e un cognome. Quel libro che le aziende liquidano velocemente come “roba da ragazzini” o “nuovo strumento promozionale”. Da cui invece potrebbero imparare il potere del dialogo “autentico”. Che non sarà la panacea per la crisi. Che forse in un momento così complesso pensare a cose come lo “humanistic  management” richiede il coraggio dell’utopia e tale coraggio non è proprio da tutti. Ma la mancanza di coraggio, o la difficoltà di visione non può certo essere ragione plausibile per il recupero in chiave riabilitativa dei principi del Taylorismo.

lunedì 18 marzo 2013

LE MEZZE PAROLE

...come le mezze stagioni non esistono più. Al loro posto parole piene e tonanti. Decisive e pesanti come massi dal cielo. Unico imperativo, la sintetica aggregazione in 140 caratteri o poco più. Che non sarebbe mica male se, per tagliare corto, non aprissero la strada al più trionfale dei disumani pressapochismi. E alla stupidità. Non che prima dell’era di Twitter e Facebook non esistessero. Confermo la mia convinzione che non sia il contenitore a creare il contenuto. Ma a modificarne la portata si. E quindi quelli che prima erano viottoli dispersi tra i discorsi di prima mattina sui pianerottoli dei condomini e la pipì del cane adesso sono enormi autostrade senza pedaggio, limite di velocità e corsia d’emergenza. Andiamo nel concreto. Un paio di settimane fa Daria Bignardi intervista una certa Giusy Versace. Dico una certa perché i cugini e i cugini dei cugini delle celebrità sono dei “signori nessuno”, come me. Ma Giusy non è come me. E’ molto più giovane. Ha avuto un incidente d’auto. Ha perso entrambe le gambe. Dopo una lunga riabilitazione è riuscita a conquistare la cosiddetta “normalità”. E l’ha pure superata riuscendo a diventare atleta di livello internazionale. Un paio di settimane fa la barbarica Bignardi la intervista in TV. Poi Ivan Scalfarotto ne parla all’interno del suo blog. Successivamente la Bignardi riprende all’interno del suo blog il post di Scalfarotto. A fianco, in mezzo e in sorpasso, tonnellate di commenti e di commenti ai commenti. 37 al post di Scalfarotto. 39 alla Bignardi. Più qualche quintalata di cinguettii, condivisioni sul libro delle facce ecc. E il coro commentante Scalfarotto decreta che “una che si chiama Versace non ha certo problemi a comprarsi costosissime e tecnologiche protesi, mentre una persona comune deve magari attendere sei mesi per una mammografia”. Il coro barbarico è, ironia della sorte, più equilibrato. Trabocca solidarietà. Ma anche qualche inserzione pubblicitaria, del tipo “ne approfitto per parlare della procreazione medicalmente assistita”, o “io la famiglia Versace la conosco bene e so questo, quello e qualcosa d’altro”. Su Twitter diventa pure un’occasione per parlare delle labbra siliconate della platinata e modaiola Donatella. La sintesi in 117 caratteri potrebbe essere ““Giusy Versace, poverina ma stronza, ha perso le gambe ma essendo ricca e ”parente”, va in tv mentre noi stiamo qui a lottare con la pagnotta”. Una bella lezione di civiltà. Di moralismo. E di idiozia. La mia, ovviamente, che non riesco a mettere in connessione lo status di “poverina” e di “stronza”. Che non riesco a cogliere che se uno ha un bel conto in banca l’amputazione di entrambe le gambe sono, tutto sommato, un fastidiuccio accettabile. Ma d’altra parte che cosa può sapere uno che come me, non ha accesso alla maison Versace e ai suoi succulenti segreti? Non (mi) basta. Dal momento che Scalfarotto, prima di essere opinion leader, blogger di successo e ora neoeletto deputato, è un paladino della diversità con particolare riferimento alle istanze della comunità gay. Da cui deduco che gran parte di chi lo segue e lo commenta dovrebbe avere una certa dimestichezza con le tematiche sociali. E capire che chiamarsi Versace e non dover patire discriminazioni omofobiche non è la stessa cosa che chiamarsi con qualsiasi nome e perdere le gambe tra le lamiere di un’auto accartocciata. Ma forse sono io che non capisco. No non capisco. Così come non capisco le santificazioni e maledizioni tracimate su Papa Francesco a 15 secondi della nomina. O quelle sulla Boldrini, sempre a pochi secondi dall’elezione. Credo fossero pochi a conoscerla prima di oggi. Però dalla faccia si vede subito che è “un’altra mantenuta”, la “solita raccomandata di sinistra”, “era meglio la Santanché”. Mi rendo conto che la libertà d’opinione, come tutte le libertà, sia difficile da gestire se non ci si è abituati. Ma così, l’opinione come la libertà ad essa legata, la si uccide. Perché non è che le parole sparate a 140 caratteri su una pista di velocità abbiano meno peso. Anzi, diventano proiettili. Esplosi qua e la senza una direzione ben precisa se non quella, ben poco edificante, del puro narcisismo e del parlare perché qualcosa bisogna pur dire. Che ben lungi dall’essere libertà è solo manifestazione selvaggia di irresponsabile qualunquismo. Pericoloso, molto prima di essere sterile.

giovedì 14 febbraio 2013

BUDDY RICHARD

Il mondo dei social media per aziende, manager e imprenditori non è solo marketing o self promotion. E' un luogo in cui l'esperienza si fa collettiva, dove le aziende tornano ad essere "organizzazioni sociali" e "manager e imprenditori" possono far cadere la cortina di ferro che separa l'esperienza umana da quella professionale. Per integrarle e mettere l'una al servizio dell'altra. Anche mettendosi al fianco di chi questo salto l'ha già fatto e molto prima dell'avvento dei social network. Prendiamo Richard Branson ad esempio. Il "capitalista hippy" per eccellenza. Colui che ha inventato il punk, le linee aeree low cost e, oggi, il turismo spaziale (alla faccia del motto "stay hungry, stay foolish”). L'uomo che ha costituito l'impero Virgin operando in aperto e costante contrasto con la manualistica aziendale (come spiega perfettamente nel suo libro "Like a Virgin: i segreti che nessuno ti insegnerà nelle business school"). Che ne direste se questi segreti, spesso atteggiamenti di vita quotidiana o semplici stati mentali, potreste apprenderli direttamente da lui? Ascoltando le sue parole come se fosse al vostro fianco ogni mattina al bar sotto casa? Non stiamo farneticando. Dato che il buon Richard, infaticabile blogger e cinguettatore, non ha nessun pudore nel condividere la sua “vincente ed entusiasta verginità” con chiunque abbia voglia di ascoltarlo. E ascoltarlo vale davvero la pena. Lui parte sempre da una provocazione. Cose del tipo “l’azienda è come una famiglia, peccato che molti colleghi sarebbero felici di non essere tuoi parenti” per mettere in luce l’importanza del portare i valori della famiglia (come una comunicazione empatica, responsabilità vs. competizione ecc.) in azienda per garantirle una “sana e robusta costituzione”. Non solo. Lui parte affermando che “non c’è nessuna differenza fra giocare e lavorare, è comunque vita”. E evidenzia come ormai il posto di lavoro non possa più essere un ufficio-cripta con pareti insonorizzate, segretarie discrete e divani in pelle, ma un luogo qualunque, possibilmente pieno di gente che discute a voce alta perché è dall’incrocio caotico delle parole, anche di quelle sconosciute, che nascono grandi idee. Riesce anche a teorizzare un “learning point” da un fatto banale come la lettera dei bambini a Babbo Natale. Secondo lui dovremmo farla tutti. Fissando in modo ispirato gli obiettivi dell’anno successivo esattamente come fossero regali che vorremmo ricevere. L’unica differenza è che noi siamo anche Babbo Natale e quindi dobbiamo prenderci la responsabilità di esaudire i nostri desideri. Potremmo dire che è facile filosofeggiare su Twitter dall’alto di un patrimonio di 4,4 miliardi di dollari. Ma se è stato costruito a suon di idee geniali nate fra una battuta e un sorriso, e se dimostra che i soldi non fanno la felicità, ma la felicità fa (anche) i soldi, vale la pena provarci. Magari scambiando qualche chiacchiera quotidiana con Richard. Nel coffee break o in pausa pranzo.

domenica 27 gennaio 2013

HABEMUS PAPAM?

Uno dei territori più accidentati della comunicazione riguarda sicuramente le gerarchia ecclesiastica. Che da sempre, ma con il pontificato di Benedetto XVII più che mai, parla alla gente. Per essere guida spirituale e morale, fonte di speranza e messaggio di fede. Ma lo fa a distanza di sicurezza, da un balcone la domenica mattina. Lo fa marcando le distanze, riportando cioè la parola di Dio e che nessuno osi controbatterla. Di fatto oggi credo non vi sia nessuna persona al mondo (i credenti mi scuseranno se ne parlo come “persona”) che possa essere percepita più inarrivabile e irraggiungibile del Papa. E di conseguenza mai come oggi, anche a causa di scandali non propriamente “veniali”, la società laica vuole risposte dalla chiesa. Allora che si fa? Semplice: mettiamo il Papa su Twitter! Gli togliamo un po’ di paramenti e lo diamo in pasto al dialogo, diretto e in sei lingue, con la gente comune. Una svolta epocale. Un evento della portata di un nuovo Concilio Vaticano a colpi di 140 caratteri a botta. Un conto alla rovescia febbrile: documentato dai media, giorno dopo giorno, con notizie, immagini e indiscrezioni. E’ ovvio che anche il gesto più banale per chiunque, se compiuto da una persona per cui anche le abitudini alimentari sono un fatto di stato, diventa immediatamente di portata planetaria. E in questo crescendo di attesa, si arriva alla mattina del 12 dicembre, momento in cui dall’I-Pad pontificio parte il primo attesissimo messaggio. “Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuore”. Lascia un certo sgomento: in dieci giorni non si poteva pensare a qualcosa di leggermente più “pregnante”? Sarebbe bastato anche un “se sbaglio mi corrigerete”. Pone dubbi sulla sua autenticità (anche se non credo vi sia persona al mondo che immagini Joseph Ratzinger in persona a “fare quattro chiacchiere con l’umanità”). Ottiene un botta e risposta, con punte di pessimo gusto inaudite, fra coloro che ritengono che comunque la sola presenza di Sua Santità su Twitter basti e avanzi e i molti altri che invece non vedono l’ora di sganciare la loro personalissima bomba sulla santa sede. Una commedia dai toni davvero poco edificanti che dal 12 dicembre si replica a frequenza trisettimanale sulle frequenze social di Benedetto XVI. Naturalmente non sono qui a stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Mi limito ad essere spettatore silente del fenomeno dal momento in cui non penso che l’essere laico e non credente basti a legittimare una corsa all’insulto gratuito e alla bestemmia. Però, in qualche modo, il seguire le benedizioni papali on-line mi ha insegnato qualche cosa sul mezzo. Twitter, nella fattispecie. Che è chiaramente specchio della realtà. E quindi non toglie le distanze che non sono state rimosse precedentemente ma semmai le fa sembrare ancora più ampie e invalicabili. Che se le porte sono chiuse nella realtà fisica lo rimangono, e a doppia mandata, anche in quella dei social media. Che se le porte rimangono chiuse il dialogo è uno sterile chiacchiericcio tra sordi. E che puoi essere anche il Papa, ma se non sai, o nessuno ti ha insegnato, a parlare ad “altezza occhi” forse è meglio continuare con il format collaudato del balcone. Evitando così alla “tua gente” la gran fatica di rispondere al posto tuo agli insulti che, seppur deprecabili, bombardano la loro dignità spirituale. E non permettendo comunque agli altri, anche quelli come me, di farti le moltissime domande che vorrebbero. Perché hanno la certezza quasi matematica che non otterrebbero alcuna risposta se non una generica benedizione qualche giorno più in la. Per me più misteriosa della fede che non ho.