mercoledì 13 giugno 2012

IO CONFESSO

Ieri mi è capitato di leggere un commento al precedente post sul come far capire ai clienti e ai comunicatori la differenza fra “essere” su un social network e “utilizzare” i social media. Credo che il problema sia più complesso e venga prima di Facebook. Riguarda i comunicatori, la loro credibilità e la capacità di persuadere se stessi e i clienti che ciò che fanno è veramente di valore. Riguarda quello che sta in mezzo al dire e al fare. Ne parlo a ragion veduta, essendo un comunicatore da più di vent’anni e avendo visto quindi la caduta di molti professionisti dal “paradiso dei consulenti in comunicazione” (che nessuno sapeva chi erano ma erano profondamente rispettati) al girone dei “comunicatori” (che tutti sanno chi sono ma non è sempre un buon motivo per starli ad ascoltare). Che cosa è successo? E’ semplicemente colpa della crisi? I tempi che cambiano? Ci sta tutto. Anche la dichiarazione alla radio di una nota cantante italiana che, interrogata sul proprio curriculum scolastico, ha affermato di essersi laureata in “stronzologia”, e cioè in relazioni pubbliche. Inutile dire che una dichiarazione del genere vent’anni fa non si sarebbe mai sentita. Comunque sia, giusto per rimanere nella tradizione, la caduta dal paradiso, è sempre conseguente a una ripetuta indulgenza al peccato capitale o al definitivo cedimento alle tentazioni di Satana. Probabilmente alcuni comunicatori non si sono fatti mancare niente. Quindi conviene inginocchiarsi nel confessionale e sperare in una redenzione. O almeno scongiurare la caduta nel girone inferiore a sostituire i carabinieri nelle barzellette. E quindi eccomi qua a confessare i peccati. Non i miei, ne quelli dei colleghi attuali e passati (non vorrei giocarmi centinaia di amici con un post). Diciamo che me li ha confidati mio cugino. E io mi confesso in sua vece. 1.Menzogna. Beh, visto che parliamo di comunicazione questo direi che è il peccato originale. E puntualmente smascherato. Non parlo di cose necessariamente grosse come presentare strategie “detto-fatto” quando non basterebbe neppure l’intervento della Madonna di Lourdes. Parlo anche delle tante “mezze verità”. Quelle che messe in fila in un mese fanno dieci mancate verità belle piene. Cose come “noi (il plurale solenne è di rigore) abbiamo un tool specificatamente studiato dai colleghi d’oltreoceano (fa figo) per il mercato delle bare”, oppure “anche se il budget non lo consentirebbe ti mettiamo a disposizione un team di 5 persone interamente dedicato (siamo io, Bart Simpson e i quattro bambini di South Park)”. Di esempi ce ne sarebbero a milioni, a partire dall’elenco delle credenziali contenuto in molte presentazioni. Chi persiste in queste pratiche sappia che nell’epoca dei social network lo sputtanamento è a portata di clic. 2. Avidità. I soldi contano non solo per noi, ma anche per i clienti. E se non va bene vendersi un tanto al chilo, va peggio vendere princisbecco facendolo passare per oro. Una volta si vendeva consulenza, strategia e strumenti operativi. Poi si è cominciato a vendere strumenti chiamandoli consulenza e strategia (pur di venderli a un prezzo più alto). Oggi ci si ritrova a vendere strumenti e servizi e si fa fatica a farseli pagare a prezzo equo. O a farseli pagare. 3. Superbia. La realtà aumentata, tanto di moda oggi è un concetto opposto all’aumentare la realtà. E quindi l’aver passato l’adolescenza all’Università del Commodore 64 non fa di noi dei laureati in comunicazione digitale. Avere Barack Obama fra gli “amici” di Facebook non è farci le vacanze insieme. Resistere all’ansia da red carpet per un comunicatore non è facile. L’imbarazzo dello sputtanamento – sempre dietro un clic - è anche più difficile. Spesso irreparabile. 4. Piaggeria. Diciamocelo: il cliente non ha sempre ragione. Quindi perché ostinarsi a dargliela? Un conto è consigliare (quello che fanno i consulenti), un conto è assecondare aldilà del ragionevole. Lo fanno gli psichiatri. Con i pazzi. E i clienti, oltre a non pagare per essere trattati da pazzi, se ne accorgono subito. Anche senza i suggerimenti dei social network. E’ sufficiente capirli. O, per i più esigenti, accudirli. Mi riferisco a cose piccole, come un drink o un locale di striptease per rilassarsi un po’ (questo, confesso di averlo fatto: è grave?). 5. Autoplagio. E’ un peccato minore. Ma ripetuto oltre il ragionevole. Parlo dei progetti fotocopia. Fotocopiati mese dopo mese e dove l’unica cosa che cambia è il logo del cliente. O dei progetti collage: un pezzo da questo, uno da quell’altro, cut and paste, said and done. Fermo restando che dall’epoca della scuola abbiamo appreso che copiare salva la vita, ora dobbiamo realizzare che copiare troppo rende ciechi. E smettiamola di pensare che i progetti siano custoditi gelosamente come il terzo segreto di Fatima. Girano. Di mano in mano. Di cliente in cliente. Di comunicatore in comunicatore (in questo caso viene cambiato anche il logo dell’agenzia). Alla faccia di tutte le Unique Selling Proposition del pianeta. 6. Arroganza. Questo vale anche, e molto, per i giovani comunicatori. Quelli che di fronte allo sconforto del cliente e alla prospettiva di passare un ulteriore weekend per cambiare rotta continuano per la loro strada e chi non capisce è un imbecille. Io questo peccato l’ho praticato poco, ma in veste di cliente l’ho subito abbastanza. E in quei – penosi – momenti pensavo “sarò anche un imbecille perché non capisco la tua genialità, ma proprio per questo mi cerco un imbecille che capisca me”. Ma se già abbiamo identificato la piaggeria come peccato capitale, come può essere coniugato con l’arroganza che ne è l’opposto? In questo noi comunicatori sappiamo fare miracoli. 7. America. Gli americani sono fighissimi. Fanno cose fighissime. E anche quando non sono tali le raccontano in modo fighissimo. Ma “simm’ nati in Italy”. E questo fatto apre una schiera pressoché infinita di sottopeccati. Vanno dal mettere la desinenza “ing” ogni tre parole all’italianizzare ossessivamente i vocaboli inglesi (briffare, speechare ecc. ecc.). Dallo strutturare la milionesima metodologia in 10 passi (i primi a farlo, si sappia, sono stati gli alcolisti anonimi) a fare proprie tutte quelle sciocchezze del multitasking, always connected, 24/7 e chi più ne ha, per favore, provi a toglierne un po’. O perlomeno vada a New York per essere sicuro di aver capito bene cosa significhino. Di questo peccato, lo ammetto, mi sono macchiato anche io. Spesso e volentieri. Mi fermo qui. Forse qualcuno si chiederà perché sono io a confessarmi al posto di mio cugino, mentre lui probabilmente è ancora diabolicamente perseverante nel peccato. E’ semplice. La comunicazione è un meccanismo perverso, pettegolo e malpensante. Ragion per cui, anche se i peccati li fa solo qualcuno, alla fine la colpa la pagano tutti. Io, per quanto mi riguarda, prometto, per quello che riesco, di “fuggire le occasioni prossime di peccato”. Ma se trovo qualcuno che mi paga bene…

lunedì 11 giugno 2012

FANCLUB

Aldilà delle previsioni sul futuro di Facebook (più plumbee del più funesto calendario Maya) resta un dato di fatto. Facebook ha cambiato il mondo. E se non ci sarà più, a parte qualche dispiacere per Mark Zuckerberg (che non è mio amico, neppure su Facebook e passa per non essere neanche un gran simpaticone) ci sarà qualcos’altro. La rivoluzione a volte prosegue anche senza gli eroi che l’hanno fomentata. Partendo sempre dal basso. Mi spiego meglio. Facebook, ma anche Twitter, Pinterest, Instagram e tutto il resto, sono chiaramente dei contenitori. E’ l’utente che mette la sostanza. Ma mentre le persone, normalmente, mettono la loro autenticità, il loro quotidiano e il loro sistema di valori; le aziende (che sono comunque aggregati di persone) riempiono il contenitore di volantini pubblicitari. Nel mio condominio per questo genere di strumenti c’è una cassettina apposita, svuotabile dal fondo, dove vengono raccolti tutti i volantini destinati agli inquilini e, una volta alla settimana, viene direttamente svuotata nel cassonetto della carta. Questo significa che i volantini sono stati formalmente consegnati. Ma di fatto non sono arrivati a nessuno. Le aziende, soprattutto quelle grandi, utilizzano Facebook alla stessa maniera. Anzi hanno l’arroganza di percepirsi come “Grandi Fratelli”, pensando che ogni messaggio lanciato generi una standing ovation. Per il solo fatto di esserci. O per avere migliaia di cosiddetti “fans” che, magari sull’onda di un buono sconto, hanno cliccato sul fatidico pulsante blu. E’ ora di aprire gli occhi. E di andare sul concreto. Parliamo di una multinazionale. Una di quelle davvero molto, molto grandi e a stelle e strisce. Su Facebook ha una pagina. Ha oltre 515.000 cosiddetti “fans”. Pubblica post ad ogni ora del giorno e della notte. Sulle meraviglie della margarina. Sul nuovo packaging del detersivo. Sul fatto che nella giornata mondiale dell’ambiente è opportuno fare gesti concreti. Ogni post ottiene in media un “mi piace”. Da parte Della signora Fanny che evidentemente ha il marito che lavora li. Altri rimangono sospesi in un vuoto silenzioso. Qualcuno ottiene un commento. Spesso negativo e spesso a tinte forti. Che rimane sospeso. O a cui l’azienda risponde che per questo genere di tematiche è opportuno utilizzare i contatti del servizio clienti. Sempre che il post cosiddetto “sgradito” non venga eliminato per una soluzione radicale del problema. Sorge qualche dubbio. In primo luogo sul significato da attribuire alla parola “fan”, originariamente abbreviazione di “fanatic” e che riporta alla mente le folle che si strappano i capelli di fronte a ogni apparizione di Mick Jagger o Madonna. L’azienda in questione ha una fama sicuramente pari a quella di questi personaggi, ma i suoi 514.999 fan, e quindi eccezion fatta per la signora Fanny (nomen omen), sono ben poco fanatici. Anzi, diciamo che lanciano un messaggio ben preciso. E’ “nonmenefreganiente” (ma l’apposito pulsante blu su facebook non è ancora disponibile). In Italia, al contrario, c’è un’altra azienda. Piccola. Produce macchinari industriali. Ha una pagina Facebook gestita direttamente dalla figlia del proprietario. E di “fan” ne ha poco più di 800. Più o meno lo stesso numero dei cosiddetti “amici” dei profili personali. Nonostante tutto, ogni singolo post e ogni singola immagine viene commentata, attiva un dialogo a cui l’azienda risponde tempestivamente, apertamente ed esaustivamente. Certo non sono grandi numeri. Raramente raggiungono i 20. Ma d’altra parte stiamo parlando di macchinari per il packaging, non delle scarpe di Sex and the City. Probabilmente gran parte dei commenti o “mipiace” provengono dai dipendenti dell’azienda stessa. Ma questa volta il messaggio, ricevuto e acoltato è “si, m’interessa”. La differenza? Semplicissima. L’azienda in questione si limita a raccontare se stessa, il suo quotidiano, la sua realtà “vera”. Probabilmente nello stesso modo con cui la signorina che scrive i post racconta se stessa nella propria pagina personale. Certo, forse anche in questo caso parlare di “fan” è un po’ eccessivo (anche in considerazione degli argomenti trattati). Sono semplicemente persone che dialogano con altre persone. E giustificano il fatto prima ancora dei modelli di Harvard, che io – che anche se avrei tanto voluto non sono Mick Jagger – ottengo più consensi della corporation che ha dieci stadi pieni pronti ad ascoltare ogni singola parola pronunciata, ma pieni di gente con i tappi nelle orecchie. A quella corporation quindi vorrei rivolgere quindi la fatidica domanda di morettiana memoria riferita al presenzialismo. “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Suggerendo che è inutile perdere tempo ad andare se non si ha il coraggio di chiedere – cito lo stesso film – “ci possiamo vedere per innamorarci di me?”