domenica 27 maggio 2012

NON SONO UN COMPUTER (E SE LO FOSSI, ORA SAREI SCARICO)

La domenica sera è innegabilmente uno dei momenti più “tormentati” della settimana. Non fai niente ma nell’ozioso galleggiare fra un pensiero e l’altro, all’orizzonte non si possono ignorare le pesanti nubi del dovere farsi avanti. Di fatto arriveranno solo il lunedi mattina, e probabilmente saranno anche meno feroci di quanto annuncino all’apparenza. Di fatto sono però sufficientemente roboanti per rovinare gli ultimi momenti di pace in una domenica sera di tarda primavera. E quindi come bravi soldatini sul finire della libera uscita cominciamo a pensare “dovevo fare quello e non l’ho fatto”, “come farò a fare tutto, a farlo bene e a farlo in tempo” ma soprattutto “forse dovrei cominciare già ora”. Come se la domenica sera, un giorno in cui sembra anche Dio si sia riposato, sia invece più opportuno dedicarlo all’espiazione del peccato di qualche ora di dolce far niente. Che il nuovo Dio dei Multitasker proprio non tollera. Siamo in un’epoca in cui la lentezza non è concessa. Ma non come – più o meno negli anni ’90 – in cui se un onesto lavoratore si permetteva di uscire dall’ufficio alle 18 (come da contratto) veniva sarcasticamente salutato dai colleghi con la somanda “oggi fai mezza giornata?”. In quel caso il problema era puramente quantitativo. Ovvero l’importante era stare in ufficio fino alle 21. Non importa a fare cosa. Io, personalmente, avevo imparato un piccolo trucco per evadere da un cliente. E quindi verso le 18:30, riponevo i ferri del mestiere nella borsa e poi mi attaccavo al telefono cellulare fino all’uscita. Facendo così presagire ai colleghi che andavo si via, ma che stavo comunque lavorando, probabilmente stavo recandomi ad una cena di lavoro e comunque la mia giornata di lavoro (prima ancora del contratto) sarebbe stata a tempo indeterminato. Con buona pace di tutti. Ora invece è diverso. Da una parte ci sono ancora molte aziende che alzano l’artiglieria pesante se vedono un dipendente occupare parte della pausa pranzo sui social network o perdere qualche minuto per rispondere a un sms. Dall’altra non è concesso passare una sera senza controllare la propria mailbox o, peccato forse ancora più mortale, farsi un weekend senza portare con se un set di dispositivi elettronici e cavi di connessione di ogni tipo “casomaisuccedessequalcosa”. Mi piacerebbe poter dire che è un problema di organizzazione aziendale. Ma dato che questa frenesia del “tempo reale” di fatto ce la portiamo dietro anche nella vita reale, sospesa tra un tweet e un whatsapp, il problema è prima, fuori e oltre i cancelli delle aziende. E’ un problema culturale. Di fatto, il multitasking, è il nuovo imperativo. Il tutto e subito al posto del qui ed ora. Efficienza e produttività dal sapore vagamente “sacrificale” e “nobilitante”. Bene i discepoli del Multitasking sappiano, giusto per avere un territorio di riferimento, che di fatto il loro Dio è nato fra un chip e l’altro. La parola multitasking ha infatti origine riferita ai sistemi operativi dei computer. Oggetti alquanto privi di anima che sono in grado di eseguire più programmi contemporaneamente. Se ad esempio viene chiesto al sistema di eseguire contemporaneamente due processi A e B, il processore eseguirà per qualche istante il processo A, poi per qualche istante il processo B, poi tornerà ad eseguire il processo A e così via. Qualcuno deve aver pensato che se funziona su una macchina, a maggior ragione deve funzionare sul cervello umano. Pensava male. Perché, cari orgogliosi multitasker c’è una brutta notizia per voi. Siete affetti da una sindrome. Una ricerca della Stanford University che ha messo a confronto cento studenti, tra multi attivi e cosiddetti “tranquilli” ha portato al risultato che il cervello del multitasker lavora male, è disattento, ha difficoltà di concentrazione, problemi di memoria e non riesce a distinguere gli elementi rilevanti da quelli irrilevanti. C’è ben poco di cui vantarsi. E uscirne è tutt’altro che semplice. Ci ha provato lo scrittore e giornalista americano A.J. Jacobs, obbligando se stesso a vivere ogni ora di ogni giorno facendo una cosa alla volta. E quindi niente più colazioni frenetiche mentre si accende il computer o si controlla la mail, niente cena con la tv accesa, niente telefonate mentre si legge o si lavora. All’inizio ha rischiato di impazzire, perché sembrava tutto così innaturale. Poi ha rischiato di essere preso per pazzo dato che l’unico modo per fissare la concentrazione su una singola azione era dirla a se stesso (e chi parla da solo non fa mai una buona impressione). Alla fine ne è uscito, ed è stato meglio. Non ha smesso di essere un multitasker, ma ha imparato a tenere il problema “sotto controllo”. Anche l’autorevole Harvard Business Review si è occupata ultimamente dell’argomento giungendo più o meno alle medesime conclusioni. Soprattutto al lavoro, oltre il 50% delle persone manifesta segnali di stress all’ennesima potenza. Non solo per il numero di ore lavorate, ma per l’enorme quantità di compiti da gestire contemporaneamente. Senza fermarsi un attimo, senza confini. Ovunque andiamo le tecnologie ci seguono, invasive e persecutorie quanto irrinunciabili. E’ fin troppo chiaro, e non ci vuole Harvard, che il problema però non sono le tecnologie. Siamo noi, con le nostre smanie di onnipotenza e iperprestazione. Perdendo, ad esempio, la consapevolezza (anche abbastanza elementare) che, se incrementiamo il consumo di energia disponibile nel corso di un’ora, ne avremo ragionevolmente meno a disposizione per l’ora successiva. E l’idea che comunque alla fine la produttività sia incrementata è una mera illusione. Giusto per dare un ordine di grandezza, il multitasker impiega in media il 25% di tempo in più per portare a termine ogni operazione. Sempre che non vada in crisi nel frattempo. Anche la Harvard Business Review propone una ricetta per “controllare la sindrome del facciotuttosubito”. Più socialmente praticabile dell’esperimento di Jacobs. E quindi, nel caso dei manager, è essenziale seguire tre regole. Per quanto riguarda le riunioni mai superare i 45 minuti, restare concentrati e rispettare la puntualità. E poi bisogna evitare di chiedere o aspettarsi riscontri immediati in ogni momento della giornata forzando così le persone ad attivare comportamenti reattivi e a non riconoscere le priorità. Infine è importante che vengano rispettati i momenti di ricreazione (e mai termine fu tanto opportuno). Ma anche fuori dall’ufficio si può arginare la dipendenza da multitasking. Ad esempio facendo le cose più importanti al mattino, senza distrazioni (neanche la musica), in un lasso di tempo compreso fra i 60 e i 90 minuti e fissando un momento di chiusura come supporto per resistere a eventuali “tentazioni”. Poi è necessario stabilire agende che prevedano anche attività a lunga scadenza, che permettano il naturale sviluppo del pensiero strategico e creativo ma – soprattutto- che ci ricordino che non è tutto urgente. E infine bisogna fare in modo che le vacanze siano tali, e quindi un momento di reale “disconnessione” dal quotidiano e dai pensieri incombenti. Sembra facile e banale, certo. Come, per chi fuma, passare una giornata intera senza fumare. E senza neppure pensarci. Ma adesso, proprio perché è domenica sera, chiudo il computer e non ci penso. Mi rifugio in un passo appena letto all’interno di “Le nostre vite senza ieri” di Edoardo Nesi. Dice: “avrei dovuto dirgli tutto ciò che penso, al ragazzo coi capelli rasta. Dirgli che bisogna stare attenti a parlar male dello spreco, perché lo spreco è il linguaggio e l’uso della giovinezza, il figlio primogenito dell’impegno, la conseguenza necessaria dello spendersi senza sosta e senza costrutto alla ricerca d’un risultato futuro che potrebbe anche non venire mai, ma che di certo non verrà se non lo si insegue follemente e disperatamente. Avrei potuto dirgli che lo spreco è vita, pura vita, poiché è dallo spreco di ogni volontà e di ogni energia che alla fine nasce il progresso, non certo dal lesinare. Che è dallo spreco totale della vita di ogni artista che nascono i capolavori”.

venerdì 4 maggio 2012

THE WOW! SIGNAL

Possiamo dire quel che vogliamo, saremo pure schiavi di tutta questa tecnologia, iperconnessi, iperoccupati e iperstressati. Ma questo mondo, quello che scorre tra web e realtà, è decisamente entusiasmante. Innanzitutto, e scusate se è poco, perchè è in continua evoluzione laddove tutto il resto sembra sprofondato in una inquietante paralisi. Ma, soprattutto, perchè riporta la società ad una primitiva, perduta quanto preziosa, dimensione organismica. Tipica delle strutture sociali tribali, che non si concepiscono come "somma di individui" ma dove ogni individuo è un organo vitale per la sopravvivenza della tribù stessa. Ad esempio gli Zo'è, una piccola comunità tribale amazzonica, non concepiscono il conflitto. Per loro è un cancro. E per questo non appena i toni di una discussione cominciano ad alzarsi, i membri della comunità si mobilitano per solleticare i potenziali litiganti e arginare ogni antagonismo. Ma anche la condivisione è un atto spontaneo e dovuto. Per questo nel vocabolario degli Zo'è non esiste la parola "grazie". Noi chiaramente non siamo così. Non viviamo nudi e siamo in competizione non solo con una moltitudine di persone, ma spesso anche con noi stessi, Veniamo - forse - fuori da una cultura basata su un individualismo sfrenato travestito da meritocrazia. Che, è sotto gli occhi di tutti, ci ha portato un po' alla frutta. Sotto ogni profilo: sociale, culturale, politico ed economico. Più studio il fenomeno dei social media (e vi partecipo) più mi rendo infatti conto che probabilmente è la scintilla di una nuova era, quella di una "democrazia sociale". Non sto filosofeggiando (cosa che peraltro adoro fare). Sto parlando di fatti concreti. Alcuni decisamente eclatanti. Come la cosiddetta primavera araba. Altri che invece forse siamo già troppo occupati a viverli per raccontarli. Il denominatore comune è sicuramente il senso del "collettivo". Probabilmente è finito il tempo in cui i bambini venivano educati ad allenare la memoria (anche con metodi crudeli come imparare le poesie del Pascoli). Ma questi bambini, e non solo loro, oggi possono fare appello ad una sorta di "memoria collettiva e globale" impensabile fino ad ora. Ad esempio, mi è successo casualmente di udire le parole "Bauman" e "società liquida". Di cui non conoscevo assolutamente nulla. Probabilmente solo dieci anni fa, aldilà di un momentaneo arricchimento del mio vocabolario, non sarebbe successo nulla. Oggi in circa 90 secondi sono riuscito a sapere chi era Bauman e ad avere una prima, seppur sommaria, idea di che cosa si intende per "società liquida". Con un po' più di tempo a disposizione sono riuscito a farmi un'idea più circostanziata di questa teoria. Nei prossimi giorni probabilmente avrò l'opportunità di approfondire ulteriormente l'argomento. Sempre grazie a questa memoria collettiva "fuori da me" sono riuscito a dare un significato al "Wow! Signal" e pure a sentirlo (lascio a voi l'emozione di sperimentarne la scoperta e il suono). E se la "memoria collettiva" permette di poter raggiungere livelli di condivisione di informazioni inimmaginabili finora e di arginare quei cali neuronali a cui quelli che, come me, hanno superato i quarant'anni sono ineluttabilmente soggetti, l'"intelligenza collettiva" permette di mettere in comune competenze, creatività e innovazione. Liberandoci finalmente dal rigore di una matematica che si ostina ad affermare che 1+1=2. Oggi 1 più 1 fa almeno 5679. E quindi - l'ho appena finito di leggere su una rivista - se le banche non concedono mutui, l'intelligenza collettiva ti viene in soccorso con la Wikihouse e il social housing. Un'iniziativa nata dallo Studio00 di Londra (un collettivo di specialisti del low-carbon design e delle nuove forme comunitarie) che ha dato vita a un progetto "in progress" per la costruzione di una casa "low cost", a impatto zero, da assemblare in nove mosse come un mobile Ikea. Geniale l'idea, ma ancora più geniale è la sua natura in progress, diretta a creare una comunità di progettisti (potenzialmente infinita) che, scaricando un plug-in del progetto , sono invitati a modificarlo, manipolarlo e perfezionarlo. Di esempi del genere ce ne sono a migliaia. Anche meno eclatanti ovviamente. E da qui possiamo spostare l'attenzione su una nuova "coscienza collettiva", su una "opinione collettiva", su una "responsabiltà collettiva". Tutto porta comunque a un mondo nuovo. Un mondo che tenta di  migliorarsi attraverso una ricodificazione in chiave organismica del concetto di "partecipazione". E tutto subito fa pensare che il mondo che ancora pone resistenze a questo vento di cambiamento sia più vecchio di Jurassic Park. Destinato ad estinguersi nel deserto dei "ma tanto la bolla scoppia" e dei "tutto passerà e ritorneranno i vecchi paradigmi solidi e sicuri (sicuri???!!!)". Stiamo naturalmente parlando di persone, aziende e organizzazioni che hanno drammaticamente perso una parte importante della loro identità genetica. Quella sociale, forse naif, ma anche in quanto tale ideativa, sperimentale e innovativa. Persone, aziende e organizzazioni che anche di fronte a un "Wow!Signal" non si pongono neppure il semplice interrogativo di sapere, almeno, che cos'è.