lunedì 23 aprile 2012

TI PIACE BRAHMS?

Credo sia ormai evidente per tutti che fare un distinguo fra il virtuale e il cosiddetto "mondo reale" abbia da tempo perso ogni senso. E da tempo io preferisco parlare di "interrealtà", ovvero di una terra di mezzo, come definito da Giuseppe Riva, risultante dalla fusione di reti virtuali e di reti reali mediante lo scambio di informazioni tra di esse. Nell'interrealtà io posso modificare in modo consistente la mia esperienza e identità sociale.  Allo stesso tempo sono io a decidere se questa terra di mezzo è più vicina ai confini del reale o del virtuale. I social network, e così chiudiamo subito questa banalissima premessa, sono solo un mezzo. Sta a me decidere di usarli per andare su Marte o per scendere ancora di più sulla strada. Ecco, per una volta, parliamo di un'interrealtà vicina alla pavimentazione stradale. Si chiama "social network ambientale". Il presupposto è quello di tutti i social network, ovvero un'"intelligenza artificiale" che permette, in base a pochi dati immessi di recuperare memorie e persone perse, e di gestire efficacemente almeno tre dei sei gradi di separazione che vi sono fra Mario Rossi e la Regina Elisabetta. Questa volta permette a Mario, che si sta godendo un caffè in un bar del centro in compagnia di un buon libro di incontrare Helga che, casualmente si trova nello stesso bar e, altrettanto casualmente condivide gli stessi gusti letterari di Mario. Poi da cosa nasce cosa e da li in poi si aprono mille scenari possibili. In pratica si tratta di un'evoluzione di quelle applicazioni (da Foursquare in poi) di geolocalizzazione. Il passo avanti è che mentre Foursquare agevolava la coincidenza, ovvero permetteva di far incontrare due persone che già si conoscevano e che per caso si trovavano nello stesso posto, con questa nuova generazione di applicazioni si conoscono persone nuove. Basta impostare alcune brevi informazioni sullo smartphone, più o meno le stesse che servono per impostare un profilo sui tradizionali social network, e trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Non solo, se a forza di leggere si è fatta l'ora dell'aperitivo e nel frattempo Mario ha condiviso con Helga la passione per gli scrittori cubani, l'applicazione suggerisce anche se c'è un posto nei dintorni dove è possibile proseguire la conoscenza davanti a un Mojito fatto a regola d'arte. Si chiamano Highlight, Glancee, Kismet e Banjo, sono tutte gratuite e facilitano la socialità. Quella vera e in carne ed ossa. Ovviamente questo fenomeno che, ai tempi di Facebook, è esploso praticamente nel momento stesso in cui è nato, ha posto subito alcuni dubbi, soprattutto per quanto riguarda il tema delicato della privacy. Temo che, ancora una volta, siamo di fronte a un falso problema. Risolto dal fatto che dal momento in cui decidiamo consapevolemente di mettere in piazza una parte più o meno estesa della nostra vita, siamo noi che decidiamo necessariamente di rinunciare ad una porzione più o meno estesa della nostra privacy. E francamente in un'epoca caratterizzata da solitudini cosmiche e anoressie esistenziali sembra che il gioco valga la candela.  E' peraltro assolutamente chiaro che queste applicazioni saranno nuove, ulteriori telecamere spia sui nostri spostamenti, sui nostri consumi e sui nostri stili di vita. Ma ne avevamo già altre. Tante e attive da molto tempo. Si chiamavano carte di credito, Google, Myspace ecc. E se comunque queste "intrusioni" favoriscono anche un cambio delle regole del marketing aziendale facendo in modo che io riceva più spesso proposte di prodotti e servizi in linea con il mio stile di vita ben vengano. Anzi, magari è la volta buona che i molti "nemici della cellulite" capiscano che il problema non mi riguarda/non mi interessa e riescano finalmente a dirigere meglio i loro massicci sforzi comunicativi. Con buona pace di tutti.

lunedì 16 aprile 2012

IL SEGRETO SOPRENDENTE DELL'ACQUA CALDA

Dopo che comunicatori, consulenti d'azienda, responsabili delle risorse umane (termine davvero orrendo per indicare i dipendenti), counselor, coach e chi più ne ha più ne metta si sono spaccati la schiena a spaccare il capello in quattro per vestire l'impresa con un abito di tollerabilità sociale, di fatto siamo da capo. Vuoi colpa della crisi, vuoi tutta una serie di resistenze al cambiamento che da sempre caratterizzano, ancora prima della fissa del posto fisso, la modalità di gestire le aziende; tutte le "carte dei valori", "codici etici" e altri altisonanti proclami corrono il rischio di finire nell'odioso calderone delle buone prediche che presagiscono opposti comportamenti. La ragione è molto semplice. Le aziende, quasi tutte, non sanno mettersi se non sporadicamente, in una autentica posizione di ascolto. E come in tutte le relazioni, molto semplicemente, se non si sa ascoltare non si può pretendere di essere ascoltati. Premettiamo che l'ascolto non è un artificio ne una patente. E' chiaramente un'attitudine da esercitare giorno dopo giorno. Cosa c'entra tutto ciò con i social network? Per il momento, purtroppo, poco. E rischia di essere l'ennesima occasione mancata. Lo dimostra un testo, per ora non pubblicato in Italia, di Bradley e McDonald (due vicepresident di Gartner), che si chiama "The Social Organization". Il testo illustra come un'impresa tradizionale (ovvero taylorista o, se si preferisce, 1.0) possa trasformarsi in una organizzazione social (quindi postfordista ovvero basata su una concezione evoluta di Management 2.0). Un testo che, da subito, pone l'accento su un aspetto fondamentale quanto semplice. Riportare l'azienda, grazie a strumenti come i social network a riappropriarsi del suo status di "organizzazione sociale", e in quanto tale di generare creazione di valore attraverso l'attivazione di una “mass collaboration" che collettivizza la capacità, le competenze, i talenti e la creatività di un grandissimo numero di persone sparse per il mondo. Naturalmente siamo nell'are delle scelte strategiche e, oserei dire, alquanto radicali. Nel senso che non si può essere "social" a metà (ad esempio solo per ciò che concerne le politiche di vendita). Ma cosa significa innanzitutto "mass collaboration"? In primo luogo sono fondamentali tre elementi. Il social media (come veicolo di creazione di cultura aziendale), le community (ovvero i gruppi di persone focalizzate al perseguimento di un obiettivo comune) e una value proposition (l'obiettivo attorno al quale le community trovano la ragione della propria esistenza). Per dirla in breve il social media è il luogo della collaborazione, la community  definisce chi collabora e la value proposition il perchè della collaborazione. Poi naturalmente ogni collaborazione ha le sue regole. Bradley e Mac Donalds ne definiscono sei. La prima è la partecipazione e quindi la mobilitazione della community. Già a questo livello viene fuori un concetto che a molti manager suciterebbe immediatamente risolini sarcastici. Perchè si, una community ha bisogno di un ambiente conviviale, regolato quindi non da un freddo scambio di informazioni funzionali ma da una libertà di espressione che permetta ad ogni sigolo componente di poter liberamente esprimere se stesso senza il timore di essere lapidariamente giudicato o, peggio ancora, lapidato (leggi licenziamento in tronco). La seconda coordinata  è il lavoro collettivo. Che significa sostituire il concetto di "contributo" alla semplice "richiesta di prestazione" e, naturalmente, valorizzarlo al massimo. La terza regola è la trasparenza. Ovvero la possibilità di ogni singolo individuo di vedere i contributi degli altri. Che a loro volta possono aumentarli, modificarli, criticarli e commentarli. E così facendo attrarre ulteriori contributi. La quarta regola è l'indipendenza, ovvero la possibilità per ogni singolo membro della community di poter fornire il proprio contributo in piena autonomia, dovunque si trovi e qualunque sia il proprio ruolo. La quinta regola è la perseveranza, ovvero la definizione del flusso delle informazioni (quali devono essere catturate, quanto devono "vivere" e ogni quando devono essere aggiornate). La sesta regola, infine, è l'importanza della base, partendo dal principio (che peraltro è anche una risultanza delle precedenti coordinate) che una reale e autentica collaborazione di massa non può essere controllata dall'alto.
Direi che per molte aziende (ma soprattutto, visto che le aziende sono aggregazioni umane, per molti manager) già la metabolizzazione di questi sei parametri darebbe origine ad una svolta quasi epocale.
Ma una volta messo a punto il sistema è importante capire come farlo funzionare. E per il momento credo sia sufficiente ribadire il meccanismo ciclico di funzionamento delle comunità  attraverso lo schema contributo- feedback-valutazione e cambiamento.
Onestamente tutto quanto detto finora sembra banale e semplice. Quasi come la carta dei valori. Ma allora perchè realtà di primo piano (e parliamo non di fruttivendoli, ma di colossi planetari come McDonald's) sui social network e quindi sulla costruzione del loro "essere organizzazioni sociali " si incastrano? Secondo gli autori, e condivido pienamente, perchè ci si focalizza sull'aspetto tecnologico. Questo è un primo errore fatale quanto globale e madornale. Come se per usare un personal computer fosse necessario imparare prima i linguaggi di programmazione. In secondo luogo perchè i principi della collaborazione di massa non fanno, di fatto, parte del vocabolario aziendale. Poi perchè si utilizzano i social media per far passare tematiche che non richiedono una "mass collaboration": basta guardare molte delle pagine aziendali presenti su facebook per rendersi conto che, nella quasi totalità, non propongono iniziative in grado di attivare una reale interazione. Fosse anche un semplice commento. E da questo fatto discende immediatamente l'incapacità di proporre contenuti veramente coinvolgenti che fertilizzino il potenziale creativo delle community. Come fare quindi? Gli autori, da buoni americani, propongono un percorso in cinque  passi (è una loro fissa, che vale dagli alcolisti anonimi in poi). Il primo passo è lo sviluppo di una visione manageriale attraverso l'analisi di funzioni e  processi aziendali per capire quando è utile la collaborazione di massa e dove è utile (analizzando ad esempio se già sono presenti forme di collaborazione spontanee, come funzionano ecc...), l'esplicitazione degli obiettivi aziendali e le modalità attraverso cui ci si aspetta che le community producano i loro contributi.       
Poi serve, come sempre, la strategia. Una vera però.  E quindi selezionare tra le infinite community possibili quelle che davvero sono rilevanti per l'azienda e che è in grado di sostenere, determinare l'"investimento" materiale e immateriale destinato alle community e, infine, rendere chiaramente espliciti i criteri di selezione adottati. Il terzo passo è la focalizzazione della proposta valoriale, e cioè rendere chiara la ragione per cui le persone dovrebbero collaborare, ma soprattutto perchè dovrebbero continuare a collaborare. Tenendo il principio che se le community sono costantemente "in movimento", altrettanto lo deve essere la proposta valoriale. E quindi basta con gli editti scolpiti nella pietra e cominciamo a pensare in termini di mappe dinamiche ed evolutive. Il quarto passo è il lancio. Ovvero la definizione dell'esperienza di collaborazione che ci si attende, il piano di azione per il coinvolgimento dei membri della community e la messa a punto di un ambiente di collaborazione (che - attenzione - non va confuso con il canale ma è più assimilabile ad un sistema integrato e complementare di canali). In seguito è necessario guidare la community, e questo è decisamente il punto più delicato. Perchè qualsiasi manager sicuramente guarda con terrore al fatto che una volta che una community è stata lanciata e magari funziona pure bene, vive di vita propria. In questo caso è essenziale l'esercizio della "perdita del controllo pur mantenendo la guida". Non valgono più le autorità di ruolo (di autentica autorevolezza al contrario c'è sempre un gran bisogno). Serve "il managing by guiding from the middle". Passare da una logica prescrittiva ad una di attivazione della capacità comunicativa  e creativa.  L'ultimo passo infine è l'adattamento all'organizzazione. Laddove infatti una community, una volta lanciata, diventa "viva" e in "crescita", è altrettanto vero che per crescere deve essere nutrita, e per essere nutrita non deve diventare qualcosa di esterno all'organizzazione formale dell'azienda .
Ancora una volta siamo di fronte ad un percorso semplice e condivisibile non necessariamente sulla base di un dottorato ad Harvard (che anzi forse potrebbe essere disfunzionale). Eppure c'è bisogno di un libro. C'è bisogno di spiegare perchè, di fatto, niente si muove. Ancora una volta gli autori di "The Social Organization" ci vengono incontro. Anche con affermazioni molto dure (e che in quanto tali condivido pienamente). Ci dicono infatti che la cultura aziendale è folle, e non nel senso di Steve Jobs. I manager infatti continuano a pensare che i social media siano una "moda passeggera", una forma di intrattenimento per giovani nullafacenti, comunque qualcosa che è distante mille miglia dal business, salvo poi entrare in piena contraddizione con questo assunto con una presenza inadeguata su questi canali. In secondo luogo per molti i social media rapopresentano una minaccia alla produttività, sia in quanto luogo di "cazzeggio", sia in quanto potenziale e pericolosissimo veicolo di informazioni confidenziali. Poi, anche se nessuno sarebbe disposto a dichiararlo, essere "social" significa prendersi precise responsabilità valoriali e risponderne in prima persona. E' chiaro che la carta dei valori appesa negli uffici e "chi s'è visto s'è visto" appare una scorciatoia meno impegnativa. Sicuramente concetti quali co-creazione di valore o learning community richiedono un impegno di ben diversa portata. E qualcuno potrebbe obiettare che un modello come questo potrebbe di fatto condurre ad organizzazioni anarchiche o ingovernabili. Al contrario, la richiesta che emerge evidente è piutoosto un radicale cambiamento nella leadership, che come accennato prima, dall'alto si sposta verso il centro. Parliamo quindi di una leadreship capace di convocare e attivare. Ma anche anche di una leadership capace di catalizzare e sintetizzare. Una leadership spogliata di ogni autoreferenziatiltà. Il problema, secondo Bradley e McDonald, non è la quantità di management necessaria, ma la modalità di management. E i manager se da una parte mantengono la responsabilità sul risultato finale e devono comunque esercitare una guida che eviti fenomeni di frammentazione, allo stesso tempo devono essere partecipativi e quindi fare proprio il compito di rimuovere gli ostacoli alla collaborazione sostenendo la collettivizzazione di quanto la community produce. Devono poi fare in modo che lo sforzo sia coerente con la proposta valoriale definita ed essere disposti a ri-focalizzarla se in corso d'opera dovessero emergere nuove esigenze. Devono infine valorizzare la performace per fare in modo che quanto prodotto da ogni singola community diventi patrimonio collettivo e condiviso dell'intera organizzazione.
Credo che questa volta, siamo un attimo più in la rispetto alla solita metodica americana che propone cose di una banalità sconcertante ma dette benissimo. Perchè se di banalità si tratta cio che mi lascia perplesso semmai è che per arrivare a considerazioni tanto ovvie quanto estranee alle attuali politiche di management ci fosse bisogno di Facebook....  



   


mercoledì 11 aprile 2012

CELEBRITY SKIN

Fiorello esce da Twitter (che pare lo avesse a libro paga) ed entra insieme a Jovanotti su Faceskin (il muovo maipiùsenza network creato dall'inossidabile Claudio Cecchetto). Michelle Hunziker annuncia che farà lo stesso, per timore di cadere nella dipendenza. Un timore reale e tangibile, s'intende: credo che chiunque di noi ha, almeno una volta, passato una indimenticabile serata con un amico che alla conversazione aveva sostituito un continuo e compulsivo ticchettio sulla tastiera dello smartphone. E' vero, la dipendenza da social network è un problema serio. Come quella da gioco d'azzardo, da alcool o da sostanze stupefacenti. Quello che però lascia stupefatti è che ancora una volta la smania di sensazionalismo prende il sopravvento su un'osservazione più circostanziata del fenomeno. Mi spiego meglio. Sicuramente se non esistesse l'eroina non ci sarebbero gli eroinomani. Che probabilmente sarebbero cocainomani. E se non esistesse la cocaina sarebbero alcolisti o incalliti masturbatori. E resto un po' di sasso nel realizzare che, nel 2012 si fa ancora fatica a guardare in faccia certi problemi. Non riconoscendo ad esempio (e finalmente) che le dipendenze, sia quelle da sostante, sia quelle comportamentali, nascono prima nell'individuo. Successivamente vengono agite sul mezzo. Poi certo, il mezzo conta. Sono assolutamente d'accordo sul fatto che Twitter, ad esempio, con la sua logica di botta e risposta a ritmo sostenuto e il meccanismo del following (e cioè dell'acquisizione di persone disponibili ad essere osservatori attivi della nostra vita) faciliti, più di altri canali, una certa compulsività. A cui però uno cede in base ad una precisa scelta personale. Non c'è nessun "eddai eddai", come da che mondo è mondo non ho mai visto nessuno in discoteca mettermi la droga di nascosto nel bicchiere (con quello che costa...). Peraltro alle "celebrities" e con particolare riferimento a Twitter vorrei chiedere: scusate ma non è esattamente su questo meccanismo che campate da sempre? Peraltro non dovreste avere la vita più facile ora che, finalmente, potete essere i "paparazzi" di voi stessi? Che cosa c'è di tanto eroico nel decidere di autoesiliarvi da Twitter? Trovereste altrettanto eroico, giusto per far quadrare i conti, privarvi della lavatrice? O siamo ancora ad insistere con la panzana della "fatica di essere star"? Beh anche fare parte dello star-system e, scusate la volgarità, guadagnare milioni di Euro non è una scelta obbligata. Poi però a pensarci ancora meglio, a dare fastidio, non è tanto l'anticonformismo a tutti i costi (ormai più obsoleto del conformismo), quanto il vestire un'azione così banale (come cancellare il proprio profilo da Twitter) di "morale esemplare". La signora Hunziker (si, ancora lei) ci tiene a precisare che permette alla propria figlia "solo un'ora di Facebook al giorno". Ognuno educa i propri figli come meglio crede e probabilmente come meglio può. Però aldilà del fatto che nel 2012 l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un neomoralismo da web, anche se fosse, gli ultimi da cui ci aspettiamo lezioni in tal senso sono proprio le celebrities. In primo luogo perchè non sono credibili. Infine perchè, dovrebbero averlo capito. Sono amate proprio perchè eccessive, scandalose e insofferenti a ogni regola morale. Da sempre fanno ciò che i comuni mortali possono solo immaginare. Poi certo, essere figli di una star non deve essere facile. Ma non tanto perchè mamma rompe le scatole su Facebook e Twitter. Più che altro per dover subire l'imbarazzo degli amici così maliziosi e pecorecci nel commentare il suo culo costantemente esposto ovunque. Facebook e Twitter compresi.
FUQ (FREQUENTLY UNANSWERED QUESTIONS)
Facebook acquista Instagram. Aldilà della ormai decisa virata dei social network verso un linguaggio sembre meno verbale e più visivo, fino a qualche anno fa se uno usava ancora la cara vecchia pellicola era subito tacciato come "brontosauro" dato che il mondo ormai si misurava in pixel e megapixel. Oggi rincorriamo un'applicazione che ci rende tutti polaroidi anni'60, nauseandoci di foto tanto stilose quanto omologate in una fissità cromatica sbiadita e vintage. Non solo. La polaroid, andata gloriosamente in pensione pochi anni fa, ora costa un miliardo. Dobbiamo attenderci a breve la resurrezione di PacMan?
Tor, tor, tor!. Oggi Repubblica dedica ben due pagine al lato "oscuro" di Internet. E' una rete parallela e anonima dove si trova "Silk Road", il sito che non esiste dove si può comprare droga, sesso diciamo non proprio ordinario e legale, documenti falsi e armi. Naturalmente per accedervi bisogna installare Tor, un software gratuito che rende invisibili. E poi bisogna seguire una procedura clandestina ma spiegata passo dopo passo all'interno del dossier del quotidiano. I pochi dettagli mancanti si possono reperire, sempre nella massima clandestinità su wikipedia e su youtube c'è pure un clandestinissimo video tutorial. Siamo di fronte a una nuova frontiera del marketing?

mercoledì 4 aprile 2012

FOR THE LOVE OF THE BIG BROTHER

Diamo per scontato che negli ultimi 15 anni il mondo ha registrato un cambiamento forse maggiore rispetto agli ultimi 150 anni. George Orwell nel 1948 scriveva 1984 (traendo il titolo dall'inversione delle ultime due cifre dell'anno della stesura). Sorvolando tutti gli apetti metaforici relativi all'alllora recente esperienza del nazismo, quel libro profetizzava una società in cui ogni secondo della vita di ogni singola persona veniva monitorata e controllata attraverso sofisticatissimi modelli di intersezione sociale governati da un'entità iconica quanto misteriosa chiamata Grande Fratello. Nel mondo di Orwell le persone comunicavano tra di loro attraverso la Neolingua. E la Neolingua era distinta da quasi tutte le altre lingue dal fatto che il suo vocabolario diventava ogni giorno più sottile invece di diventare più spesso. Probabilmente per i lettori del libro negli anni '50, ma anche per quelli che, come me, lo hanno scoperto in parallelo con l'uscita dell'omonimo film di Michael Radford (nel 1984), quel futuro così iperbolico era semplicemente frutto di un genio narrativo allucinato. Materia onirica. Profezia plausibile quanto l'invasione dgli ultracorpi. E nel 1984 in effetti era ancora così. Non avevamo neppure CD e cellulari, figuriamoci se potevamo pensare a strumenti che permettessero anche solo di comunicare guardandoci in faccia e dai quattro angoli del pianeta. Bastava solo aspettare. Neppure tanto. Circa 13 anni. Nel 1997 infatti eravamo già tutti muniti di cellulare, di personal computer e di webcam che ci permettevano, su larga scala, di rivoluzionare il nostro mondo delle relazioni sociali. Nel 1997 nasceva Six Degrees (il primo social network per come lo intendiamo oggi). Sempre nel 1997 la televisione italiana mandava in onda il primo reality show (si chiamava Milano-Roma e metteva due personaggi noti in auto registrando le loro conversazioni mentre attraversavano l'Italia). Tre anni più tardi la normalità delle persone diventava spettacolo in tv ogni giorno, 24 ore su 24, attraverso la nascita, fra mille polemiche velocemente metabolizzate, di "Grande Fratello". Non solo. Molti di noi facevano il percorso contrario creando il proprio personale reality show attraverso le videochat o poco più tardi caricando i propri video su Youtube. E sia in un verso, sia nell'altro, ognuno di noi si è guadagnato una identità di personaggio pubblico dove ci sta dentro di tutto: dal lavoro alla cucina, dal tempo libero al sesso. Rispetto a quanto descritto da Orwell la differenza è sicuramente un mondo meno cupo e un Grande Fratello che è molto più silenzioso e che, per il momento, si limita a monitorare i nostri consumi per operazioni di marketing. O ad arginare (abbastanza male) eventuali comportamenti illegali. Per il resto c'è tutto, il suo contrario e anche quello che sta fra i due opposti. Compresa la Neolingua. Parliamo moltissimo, parliamo di tutto e lo facciamo molto più velocemente. E tra un k un X, un lol e un roftl, una emoticon e lo sdoganamento definitivo del turpiloquio, il vocabolario si sta rapidamente assottigliando. Causa ed effetto dell'evoluzione dei contesti a cui il Grande Fratello (il Dio di Facebook e dei Passerotti) ha dato una brusca accelerata. Ci si dà tutti del tu, indipendentemente da classe sociale, età o gerarchie. Probabilmente l'Accademia della Crusca rispetto a questo impoverimento della lingua sta manifestando evidenti segni di malessere, e lo vede come un sostanziale sintomo di degrado sociale. Io onestamente non sono d'accordo. Mi preoccupa, se vogliamo, molto di più l'italianizzazione dell'inglese per cui ora tutti implementiamo, briffiamo o daunlodiamo. Ma anche in questo caso trovo molto più conveniente adattarmi all'evoluzione piuttosto che correre il rischio di trovarmi in men che non si dica ai margini della società. E onestamente se questo è il prezzo per poter comunicare meglio e di più con i miei amici come con Obama o Madonna, credo che il gioco valga la candela. Ciò che preoccupa (è una mia caratteristica cercare di vedere sempre il lato oscuro della luna) è altro. Mi riferisco alla perdita del "senso di confine" e prima ancora della consapevolezza dell'esistenza dei confini. Mi spiego meglio. Una volta le persone tornavano dal lavoro, chiudevano la porta di casa e tutto quello che succedeva da li in poi era un fatto esclusivamente privato e inaccessibile. Oggi le persone tornano dal lavoro, chiudono la porta di casa e potenzialmente trovano una folla nel salotto. Disponibile e morbosamente curiosa di conoscere ogni aspetto della loro vita de-privata. Una folla che tramite il proprio consenso o dissenso può giudicare e forse modificare o manipolare. Vale per aspetti quali l'opportunità della depilazione intima o le abitudini alimentari. Vale anche per le opinioni politiche, le propensioni culturali e il sistema di valori in generale. Conosco persone che tengono costantemente una o più webcam attivate in casa in modo da essere costantemente osservate in ogni singolo momento della giornata. So di un fenomeno chiamato hikikomori (letteralmente mi ritiro) che porta i ragazzi a escludere qualsiasi relazione con il mondo che non sia mediata da un pc: quasi una paradossale clausura all'interno di uno stadio traboccante di persone. Ma anche senza arrivare a questi estremi, i più arrivano a casa, si piazzano davanti alla tv per guardare la vita banale e nullafacente dei ragazzi del Grande Fratello o dei finti famosi su un'isola tropicale, e, una volta finita la trasmissione, accendono la webcam del proprio pc dando così vita al proprio personalissimo Grande Fratello Home Edition. Per quanto mi riguarda io lo faccio anche un po' di più rispetto alla media italiana non essendo interessato ai reality show. Giusto? Sbagliato? Sano? Patologico? Non saprei. Da una parte continuo a ripetermi che se il mondo sta cambiando possiamo filosofeggiarci intorno quanto vogliamo ma lui cambia lo stesso. Dall'altra, se mi fermo a guardare con un minimo di distanza la mia faccia statica, pallida e bluastra (anche il 15 di agosto) riprodotta da milioni di pixel sullo schermo del mio PC, sento un leggero brivido d'inquietudine correre lungo la schiena. Mi chiedo se non hanno ragione certe tribu che non si fanno fotografare perchè sono convinti che la fotografia rubi l'anima. Mi rispondo che se anche avessero ragione, nel mio caso è già tardi. E vado a dormire sperando che me ne sia rimasta a sufficienza per il prossimo show.